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Jeffrey Alexander

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Jeffrey Charles Alexander (1947 – vivente), sociologo statunitense.

Citazioni di Jeffrey Charles Alexander

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  • [...] il centro degli attuali dibattiti si colloca tra... la "sociologia culturale" e la "sociologia della cultura".[1]
  • L'errore di Bourdieu... è che non riconosce che la cultura mantiene una relativa autonomia rispetto alla struttura sociale.[2]
  • Non siamo sempre ragionevoli, razionali o sensibili come ci piacerebbe pensare.[1]

La costruzione del male

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  • Applicando il metodo sociologico-culturale ad una serie di argomenti diversi ma collegati, spero di dimostrare che la cultura non è una cosa ma una dimensione, non un oggetto da studiare come variabile dipendente ma una trama che organizza – e da cui non si può prescindere – ogni forma sociale concepibile. (cap. I, p. 24)
  • Se l'amore per il sacro, la paura della contaminazione e il bisogno di purificazione hanno continuato a segnare la vita moderna come quella tradizionale, possiamo scoprire come e perché ciò avvenga solo seguendo un sentiero sociologico-culturale.
    Nella storia delle scienze sociali gli «amici della cultura» sono stati tendenzialmente conservatori. Essi hanno coltivato una nostalgia per l'organicismo e per il vigore della vita tradizionale. L'idea di una sociologia culturale si è spesso fondata su simili aspirazioni, sull'idea che solo nelle società semplici, religiosamente ordinate, non democratiche e ormai passate, i miti, le narrazioni e i codici svolgano un ruolo fondamentale. Questo volume dimostra il contrario. La riflessione e la critica sono radicati in miti rispetto ai quali gli esseri umani non possono essere completamente riflessivi e critici. Se comprendiamo questo, possiamo separare il sapere dal potere invece che esserne solo sottomessi. (cap. I, p. 26)
  • Non furono né la repressione delle emozioni né il buon senso morale a dar vita alle prime reazioni allo sterminio degli ebrei. Fu, piuttosto, un sistema di rappresentazioni collettive che focalizzò il suo fascio di luce narrativa sulla trionfante espulsione del male. (cap. I, p. 51)
  • Come sottolineava Dilthey, i significati sono sicuramente governati da strutture così come i processi economici e politici; solo sono governati in modi diversi. Ogni tentativo di sviluppare una scienza sociale interpretativa deve iniziare con la ricostruzione di questa struttura culturale. (cap. I, p. 62)
  • Invece della redenzione attraverso il progresso, la narrazione tragica offre ciò che Nietzsche ha chiamato il dramma dell'eterno ritorno. Come si è ormai capito, non esisteva alcun modo per «andare oltre» la storia dell'Olocausto. Esisteva solo la possibilità di ritornarvi: non trascendenza ma catarsi. (cap. I, p. 68)
  • Nella misura in cui l'Olocausto è giunto a definire la disumanità nel nostro tempo, esso ha dunque svolto una funzione fondamentalmente morale. La «moralità post-Olocausto» ha potuto svolgere questo ruolo, tuttavia, solo attraverso una forma sociologica: è diventata una metafora di collegamento che gruppi sociali di diverso potere e legittimità hanno utilizzato per definire logicamente come bene o come male gli eventi storici in corso. Ciò che l'Olocausto ha identificato come il male più profondo è l'impiego sistematico ed organizzato della violenza contro i membri di un gruppo collettivo stigmatizzato, sia esso definito secondo criteri primordiali o ideologici. Questa rappresentazione non solo ha identificato come male radicale i colpevoli e le loro azioni, ma ha interpretato come male anche i non-attori. Secondo i criteri della moralità post-Olocausto ad ogni individuo è ora richiesto, normativamente, lo sforzo di intervenire contro qualsiasi Olocausto, al di là di ogni considerazione di costi e conseguenze personali. (cap. I, p. 91)
  • [...] i paesi o le civiltà che non riconoscono l'Olocausto possono sviluppare moralità politiche universalistiche? Ovviamente, le nazioni non-occidentali non possono «ricordare» l'Olocausto, ma nel contesto della globalizzazione culturale sono certamente diventate gradualmente consapevoli del suo significato simbolico e della sua importanza sociale. Potrebbe anche verificarsi che le nazioni non-occidentali sviluppino drammi del trauma che siano funzionalmente equivalenti all'Olocausto. (cap. I, p. 118)
  • Nella storia delle società umane, è spesso accaduto che diversi resoconti narrativi dello stesso evento fossero in competizione tra loro, e si alternassero nel corso del tempo. Nel caso dello sterminio degli ebrei compiuto dai nazisti, ciò che era un tempo descritto come il preludio e la spinta verso il progresso morale e sociale è stato ricostruito come l'innegabile dimostrazione che nemmeno i più «moderni» sviluppi della condizione umana possono assicurare un progresso se non in un senso puramente tecnico. (cap. I, pp. 118-9)
  • La versione illuministica vede il trauma come una sorta di risposta razionale all'improvviso mutamento, a livello sia individuale che sociale. Gli attori sociali percepiscono chiaramente gli oggetti o gli eventi che causano il trauma, le loro risposte sono lucide, e gli effetti di tali risposte sono risolutori e orientati al progresso. (cap. II, p. 131)
  • Il trauma non è il risultato di un dolore provato a livello di gruppo. È il risultato del processo per cui questo acuto disagio penetra nel senso d'identità della collettività. Gli attori collettivi «decidono» di rappresentare il dolore sociale come una minaccia fondamentale al loro senso di identità, alle loro radici e ai loro obiettivi. In questo paragrafo descriverò la natura di queste azioni collettive e i processi culturali e istituzionali che le mediano. (cap. II, p. 142)
  • L'inevitabilità di tali processi di routinizzazione non riduce in alcun modo la straordinaria rilevanza sociale dei traumi culturali. La loro creazione e routinizzazione ha al contrario implicazioni normative assolutamente fondamentali per lo svolgimento della vita sociale. Permettendo ai membri di ampi pubblici di condividere il dolore di altri, i traumi culturali espandono i confini della comprensione sociale, e aprono la strada a nuove forme di fusione sociale. (cap. II, p. 158)
  • Per quanto sia tortuoso, il processo di trauma mette le collettività in grado di definire nuove forme di responsabilità morale e di indirizzare il corso dell'azione politica. Questo processo di creazione del trauma, contingente e illimitato, e l'assegnazione di responsabilità collettive ad esso collegata, è rilevante per le società occidentali così come lo è per quelle non-occidentali.
    I traumi collettivi non hanno limitazioni geografiche o culturali. La teoria del trauma culturale si applica, senza pregiudizio, a qualsiasi situazione in cui le società hanno, o non hanno, costruito e vissuto eventi culturali traumatici, e ai loro sforzi di descrivere le lezioni morali che si può dire scaturiscano da essi. (cap. II, p. 162)
  • Da un punto di vista empirico, vorrei suggerire che la questione non riguarda tanto l'opposizione tra valori e interessi o la comparazione tra l'avere e il non avere valori. Ci sono sempre valori «buoni» e «cattivi». In termini sociologici, i valori buoni possono venire cristallizzati solo in relazione ai valori di cui si ha paura o rifiuto. Questo non significa suggerire che i valori debbano essere relativizzati in senso morale, cioè che essi possano o debbano essere, nei termini di Nietzsche, transvalorizzati o invertiti. Significa, in altre parole, insistere che gli scienziati sociali riconoscano che la costruzione sociale del male è stata, e rimane, empiricamente e simbolicamente necessaria per la costruzione sociale del bene. (cap. III, p. 173)
  • Il male, da semplicemente disgustoso ad assolutamente brutale, è profondamente coinvolto nella costruzione simbolica e nella conservazione istituzionale del bene. Per questo lo status istituzionale e culturale del male deve essere continuamente rivitalizzato. La linea che distingue il sacro dal profano deve essere tracciata e ritracciata ripetutamente; questa demarcazione deve mantenere la sua vitalità, o tutto sarà perduto. [...] Attraverso fenomeni come gli scandali, il panico morale, le punizioni pubbliche e le guerre, le società forniscono le occasioni per avere di nuovo esperienza e quindi ricristallizzare i nemici del bene. Esperienze violente di orrore, repulsione e paura creano le opportunità per la purificazione che mantiene viva quella che Platone chiamava «la memoria della giustizia». (cap. III, p. 179)
  • Nella mia impostazione, la punizione è il mezzo sociale attraverso cui le pratiche degli attori, dei gruppi e delle istituzioni sono messe in una relazione significativa ed effettiva con la categoria di male. È attraverso la punizione che il male viene naturalizzato. La punizione «essenzialízza» il male, facendolo apparire come se emergesse dal comportamento e dalle identità effettive piuttosto che come se fosse culturalmente e socialmente imposto ad esse. (cap. III, p. 180)
  • Le società moderne e postmoderne sono sempre state assediate da un fondamentalismo, sia religioso che secolare, socialmente fondato. Questi moralisti vorrebbero ripulire l'immaginazione culturale dall'eros e dalla violenza; condannano l'aperta discussione di azioni e desideri trasgressivi nelle scuole e in altri luoghi pubblici; cercano di punire e a volte perfino incarcerare coloro che compiono crimini «senza vittime» sulla base del ragionamento che essi violano la coscienza morale collettiva.
    L'ironia è che, senza l'immaginazione e l'identificazione sociale del male, non ci sarebbe possibilità di legame con il bene che questi moralisti sostengono così fortemente. Più che mettere a repentaglio la moralità convenzionale, la trasgressione la sottolinea e la rivitalizza. Bataille, che James Miller chiamò il «filosofo maledetto» (philosophe maudit) della vita intellettuale francese, non cessò mai di insistere su questo punto. (cap. III, p. 184)
  • Dobbiamo considerare il terrorismo come una forma di azione non solo politica ma anche simbolica. Il terrorismo è un tipo particolare di performance politica. Esso sparge sangue – letteralmente e figurativamente – facendo uso dei fluidi vitali sue vittime per gettare un impressionante ed atroce schizzo sulle tele della vita sociale. Non mira solo ad uccidere ma nell'uccisione, e attraverso essa, mira a esprimersi in modo drammatico. Nei termini di Austin [1962], il terrorismo è una forza illocutiva che mira ad ottenere un effetto perlocutivo. (cap. IV, p. 198)
  • Con l'avvio dell'«età del terrore» [Talbot e Chanda 2002], il potere di iniziare la fase più nuova del ciclo contrappuntistico si è spostato da Occidente a Oriente. Ma la messa in scena non è mutata. Il terrorismo islamico è un'espressione drammatica, la reazione occidentale ad esso un drammatico fraintendimento. Queste sceneggiature, islamica e occidentale, alimentano sequenze iterative di performance scorrette. A meno che il ciclo non venga interrotto, esso metterà a repentaglio le prospettive di stabilità sociale e comprensione internazionale e, per molte sfortunate persone, lo stesso diritto alla vita. (cap. IV, p. 219)

Note

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  1. a b Citato in AA.VV., Il libro della sociologia, traduzione di Martina Dominici, Gribaudo, 2018, p. 207. ISBN 9788858015827
  2. Citato in AA.VV., Il libro della sociologia, traduzione di Martina Dominici, Gribaudo, 2018, p. 208. ISBN 9788858015827

Bibliografia

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  • Jeffrey Alexander, La costruzione del male. Dall'Olocausto all'11 settembre, traduzione di Marco Solaroli, il Mulino, 2006.

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