Ibn Muljam: differenze tra le versioni

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Versione delle 07:41, 14 lug 2009

Il kharigita ‘Abd al-Rahman ibn Muljam è ricordato come l’assassino del quarto Califfo ‘Ali ibn Abi Talib, cugino e genero del profeta Muhammad. I fatti che portarono all’aggressione e all’uccisione di ‘Ali, sorpreso dalla lama avvelenata di Ibn Muljam nella moschea della città irachena di Kufa durante il mese di Ramadan, nell’anno 40 dell’Egira (28 febbraio 661), sono spesso narrati con l’aggiunta di dettagli che mirano per un verso ad esaltare la nobiltà d’animo della vittima e per un altro a sottolineare la viltà del suo uccisore, il che rende estremamente difficile risalire a una ricostruzione storica attendibile degli eventi.

Secondo quanto riporta lo storico al-Tabarī nella sua opera annalistica chiamata Ta'rikh al-rusul wa al-muluk[1] ‘Abd al-Rahman ibn Muljam al-Murādi, un egiziano dei Banu Jabala dei Kinda, un halīf (confederato) di tale tribù, si sarebbe impegnato ad uccidere l’allora Califfo ‘Ali ibn Abi Talib in seguito al sanguinoso epilogo della battaglia di Nahrawàn, teatro del massacro di molti kharigiti.
Insieme ad al-Buràq ibn ‘Abd Allah e ad ‘Amr ibn Bakr al-Tamimi[2], infatti, decise di compiere un gesto clamoroso che ristabilisse ai suoi occhi l’ordine e vendicasse i musulmani della cattiva gestione della comunità islamica operata da quelli che egli considerava "empi governanti". Fu così che i tre giurarono di assassinare rispettivamente ‘Ali ibn Abi Talib, Mu'awiya ibn Abi Sufyan e Amr ibn al-As, 17 giorni dopo l’inizio del mese di Ramadan[3]. Recatosi a Kufa sulle tracce del quarto Califfo, Ibn Muljam ebbe modo di incontrare alcuni uomini della tribù dei Taym al-Ribàb[4], intenti a lamentare la perdita di dieci dei loro, uccisi dallo stesso ‘Ali durante la battaglia del canale svoltasi a Nahrawan. Tuttavia l’incontro che più d’ogni altro contribuì a rafforzare i suoi propositi di vendetta sembra essere stato quello avvenuto lo stesso giorno con la giovane e bellissima Qatàmi bint al-Shijna, una fanciulla della tribù dei Taym al-Ribàb[5]. Pare, infatti, che Ibn Muljam l’avesse chiesta in sposa e che la ragazza, che pure aveva perso il padre ed il fratello a Nahrawan, gli avesse imposto come dono nuziale (mahr ) il pagamento di 3.000 dirham, uno schiavo e una schiava dalla bella voce e, infine, proprio l’uccisione di ‘Ali ibn Abi Talib.
Fu la giovane a mettere in contatto Ibn Muljam con un uomo dei Taym al-Ribàb, di nome Wardàn che, insieme ad un certo Shabib ibn Bajara, partecipò attivamente come complice all’assassinio del Califfo[6]. Le fasi precedenti e quelle immediatamente successive all’attentato sono avvolte da una coltre di informazioni confuse e concitate su cui molto si è ricamato nel corso dei secoli.
Al-Tabarī racconta che la sera prima del venerdì in cui fu ucciso ‘Ali i tre raggiunsero Qatàmi all’interno della moschea (la ragazza stava praticando lì un periodo di ritiro volontario, o mu‘tàkifa, in occasione del Ramadan), si fecero legare intorno al petto della seta[7] ed attesero nascosti dietro la porta attraverso la quale l’indomani sarebbe entrato il Califfo per la preghiera comunitaria del venerdì.
Giunto il momento, i tre attaccarono ‘Ali, ma solo Ibn Muljam riuscì a colpirlo mirando alla testa, mentre lui stesso, nella concitazione generale e tra le urla dei presenti, finì catturato e ferito ad una gamba per mano di un uomo dei Banu Hamdàn, conosciuto con la kunya di Abu Admà’[8]. Ibn Muljam fu, quindi, il solo ad essere bloccato all’interno moschea (Wardàn raggiunse la propria abitazione, dove fu ucciso da un parente che aveva appena appreso dell’attentato, mentre Shabìb riuscì a far perdere la proprie tracce) e condotto a casa del Califfo ferito, la cui agonia durò due o tre giorni.

Anche in questo caso i resoconti dell’incontro faccia a faccia fra la vittima e il suo uccisore si colorano di elementi fortemente emotivi.
In alcune ricostruzioni vengono messe in risalto le complicità che portarono al delitto, in altre ancora Ibn Muljam appare come protagonista assoluto della vicenda; talora Ibn Muljam appare come un uomo debole, un vigliacco, talora, invece, si vuole far emergere il ritratto di un lucido fanatico.

In ambienti sciiti, ad esempio, si tende ad enfatizzare il carattere profetico dell’attentato, sottolineando il fatto che Ibn Muljam fosse stato in passato un servitore dello stesso ‘Ali e che quest’ultimo avesse “miracolosamente” previsto la propria morte; il che rende la morte del primo Imàm sciita un martirio non troppo distante per circostanze e pathos dal tradimento di Gesù per mano di Giuda. Ibn Muljam, infatti, in precedenza, sarebbe stato apostrofato dal quarto Califfo come "l’uomo nelle cui mani era la sua fine" e, ascoltato ciò, egli avrebbe chiesto sconfortato di essere condannato a morte; ma ‘Ali ibn Abi Talib, oppostosi con forza ad una simile soluzione, avrebbe risposto che mai avrebbe potuto permettere che fosse incarcerato o fatto uccidere per un crimine che ancora non aveva commesso[9]. Nel momento del confronto, Ibn Muljam viene dipinto a tratti come un individuo impaurito e tremante che, al cospetto del morente ‘Ali, ammette di non aver subito mai nessun torto dalla sua vittima, a tratti come un uomo crudele, spavaldo o sospettoso che rifiuta la metà del latte offertogli dal Califfo perché convinto che sia stato avvelenato[10] e pronuncia frasi di sfida come «Per 40 mattine ho affilato la mia spada, chiedendo ad Allah di farmi uccidere la peggiore delle sue creature!»[11] oppure, rivolgendosi ad Umm Kulthum, sua figlia: «Per cosa ti lamenti? Ho comprato questa spada per 1000 dirham e l’ho avvelenata per altri 1000, se la sua lama si fosse abbattuta su tutte le persone di questa città nessuno sarebbe sopravvissuto!»[12].

Fu stabilito, per volere dello stesso Califfo agonizzante, che qualora egli fosse sopravvissuto sarebbe spettato a lui decidere della sorte del proprio assalitore, mentre, nel caso della sua morte, si sarebbe dovuta applicare la legge del taglione ed uccidere l’omicida con un solo colpo di spada, senza ricorrere alla tortura[13]. Così avvenne. Morto ‘Ali, Ibn Muljam fu portato al cospetto del primogenito del califfo, al-Hasan ibn Ali, e malgrado avesse chiesto di essere rilasciato promettendo, in cambio, di uccidere Mu‘awiya ibn Abi Sufyan, fu giustiziato per mano del figlio della sua vittima. Subito dopo i suoi resti furono presi, avvolti in stuoie di paglia e incendiati.

Note

  1. ^ The History of al-Tabari, Vol. XVII The first civil war, trad. e note di Michael G. Morony, State University of New York Press, Albany, N.Y., 1987.
  2. ^ Il primo era dei Banu Suraym (dei Tamim), il secondo, invece, apparteneva al gruppo dei Banu Sa‘d (dei Tamim), tribù alleata con la confederazione dei Ribàb.
  3. ^ The History of al-Tabari, pp. 213-214.
  4. ^ Il gruppo dei Banu Taym ibn ‘Abd al-Manat era noto anche col nome di Taym al-Ribàb in quanto facente parte della più ampia confederazione dei Banu Ribab
  5. ^ The History of al-Tabari, p. 214.
  6. ^ The History of al-Tabari, p. 215.
  7. ^ Il significato di questo gesto, che ha l’aria di assomigliare ad un rito propiziatorio, è rimasto ad oggi totalmente oscuro.
  8. ^ The History of al-Tabari, p. 216.
  9. ^ sito dell’Islamic Culture and Relation Organization di Teheran.
  10. ^ Si racconta che il Califfo avesse generosamente fatto portare metà del proprio latte a Ibn Muljam perché convinto che il prigioniero avesse fame, ma quest’ultimo l’avesse rifiutata con decisione. Saputo ciò ‘Ali, deluso, si sarebbe interrogato sulla ragione di tanta diffidenza, affermando che se Ibn Muljam avesse accettato il suo dono, non avrebbe varcato la soglia del Paradiso senza averlo al suo fianco.
  11. ^ The History of al-Tabari, p. 216.
  12. ^ The History of al-Tabari, p. 218.
  13. ^ A questo proposito viene citato un hadith del Profeta che dice: «Non uccidere neanche un cane rabbioso con tortura e dolore».

Bibliografia

  • The History of al-Tabari, Vol. XVII The first civil war, traduzione e note di Michael G. Morony, State University of New York Press, Albany, N.Y., 1987.
  • Lemma «Ibn Muldjam» (L. Veccia Vaglieri), sull’Encyclopédie de l’Islam, Leyde, E. J. Brill – Parigi, G.-P. Maisonneuve & Larose S. A., 1975, vol. III, pp. 911-914.
  • Leone Caetani, Annali dell’Islam, Milano, Hoepli, 1905-1926, sub anno 40, §§ 32-98.
  • Giorgio Levi Della Vida, “Il califfato di Ali secondo il Kitàb al-Ašràf di al-Balàdhurì”, in: Rivista degli Studi Orientali, VI/2 (1913), pp. 503-507.

Voci correlate